Viviamo in un tempo in cui il successo sembra l’unica misura del valore di una persona. Le carriere si costruiscono come cattedrali di vetro, lucenti e fragili allo stesso tempo. Si inseguono ruoli, riconoscimenti, titoli. Ci si convince che la vetta sia il punto d’arrivo, il traguardo che giustifica ogni sforzo. Eppure, quando il vento cambia direzione, basta poco perché quell’altura si trasformi in precipizio.
C’è un momento, per alcuni, in cui il potere, la visibilità e il privilegio svaniscono. Quando il clamore del pubblico si spegne e resta solo il rumore del proprio respiro, la vita si mostra nella sua forma più semplice — e più vera. È lì che si scopre cosa resta davvero di noi.
Molti temono la caduta come una condanna, ma può essere anche una rinascita. Ritrovare la propria misura, riconnettersi con il senso delle piccole cose, scoprire il valore di un lavoro umile, di un gesto quotidiano, di uno stipendio che basta appena per vivere, ma che permette di farlo con dignità. In un’epoca che confonde spesso l’apparenza con la sostanza, tornare alla realtà può essere il più grande atto di libertà.
È un percorso che richiede coraggio, perché implica spogliarsi dell’immagine costruita nel tempo e accettare la propria fragilità. Ma solo chi riesce a farlo può davvero dire di essere tornato a vivere.
C’è chi l’ha imparato a caro prezzo. Come Irene Pivetti, che un tempo sedeva sullo scranno più alto di Montecitorio, come presidente della Camera dei deputati, simbolo di potere e di ascesa fulminea. La più giovane presidente della Camera della storia repubblicana. Oggi lavora in una cooperativa che gestisce un ristorante sociale, guadagnando mille euro al mese.
Ha raccontato di non avere più i soldi per mangiare, di aver venduto tutto, anche i ricordi. Ma nelle sue parole non c’è vergogna. C’è consapevolezza. «Devo vivere oggi», ha detto.
E in quella frase c’è tutto: il coraggio di lasciarsi alle spalle il passato, di accettare la propria fragilità e di ritrovare, nel poco, il senso del tanto.
Forse la vera vittoria non è arrivare in alto.
È riuscire a restare in piedi quando tutto il resto cade.
P.S.: Ho scelto questo titolo perché ogni caduta, in fondo, è un viaggio.
Dalle stelle alle stalle non è solo un modo di dire, ma un percorso umano che attraversa la gloria e la fragilità, la perdita e la riscoperta. Come ogni viaggio, anche questo può avere un ritorno — non verso ciò che si è stati, ma verso ciò che si è davvero.
Il ritorno non è quasi mai un tornare indietro. È un tornare a sé stessi.
E in quel ritorno, spesso silenzioso, c’è tutta la dignità del vivere.
