La scorsa estate si è avuta l’impressione che gli italiani siano rimasti a casa. Ma non è così: Albania, Grecia, Turchia, Spagna… tutte in crescita. Tutte hanno registrato una maggiore presenza di italiani.
Cosa significa? Che non stiamo perdendo viaggiatori per mancanza di voglia, ma forse per altri motivi che non sono la crisi economica, le infrastrutture o le difficoltà croniche, ma più semplicemente la mancanza di ospitalità.
Il marketing del turismo non è fatto solo di panorami e monumenti, ma di come una destinazione fa sentire chi la sceglie.
E nei mesi scorsi i social ci hanno restituito un’immagine imbarazzante:
• 2 € per tagliare un panino a metà;
• 2 € per scaldare un biberon;
• 26 € per due gin tonic;
Non sono episodi isolati: sono esperienze che si trasformano in percezioni negative che diventano virali.
E quando il Brand Destinazione evoca queste sensazioni negative anziché esperienze stra-ordinarie, il danno è enorme.
Il turismo non è una battaglia fra destinazioni ma fra percezioni.
I viaggiatori non chiedono miracoli: chiedono esperienze sincere, qualità onesta, rispetto per il loro tempo e per il loro denaro. Vogliono sentirsi parte di un racconto, non numeri su un registro o “polli da spennare”.
Se percepiscono questo, racconteranno questo, scriveranno questo e contribuiranno a definire una destinazione.
Serve un cambio di prospettiva. Serve più professionalità, cura, attenzione al dettaglio. Serve la capacità di vedere con quel “terzo occhio” che apre lo sguardo a 420 gradi e ci permette di leggere i bisogni nascosti dietro ogni scelta di viaggio.
Il turismo è relazione, emozione, memoria. Non possiamo continuare a fare le stesse cose aspettandoci risultati diversi.