C’era un tempo in cui credevamo solo alla vita e che il resto non ci potesse appartenere. Ogni volta che si avvicinava il lato oscuro pensavamo non ci potesse riguardare.
Per questo non gli davamo importanza e avevamo ali così potenti che ci facevano riprendere il volo proprio quando sembravamo quasi a terra. Sfioravamo lo schianto e quando è successo a qualche amico cominciavamo a guardare il mondo con occhi diversi.
Forse è la giovinezza l’età dell’immortalità. L’età in cui fai tutto, senza sapere niente. Senza se e senza tanti perché.
Perdevamo il fiato per cose che oggi neanche ricordiamo e i tramonti colorati erano solo l’inizio di una nuova giornata.
La parola fine ci faceva sorridere e la andavamo a cercare. Oggi la evitiamo anche nei pensieri.
I nostri padri. Loro si che sembravano immortali. Erano i nostri eroi, anche quando fumavano a tavola dopo cena mentre tutti guardavamo la tv, senza preoccuparsi di niente.
Quando con il loro sudore ci spianavano una strada che ci sembrava scontata, dovuta, meritata.
E oggi che padri lo siamo noi, viviamo nell’imbarazzo di non essere mai abbastanza.
Non possiamo comprare la felicità dei nostri figli. Non possiamo regalargli complimenti che non meritano. Non ci ringrazieranno per le nostre falsità. Eppure siamo sempre lì a ridere e ad applaudirli.
Andavamo a cercar le stelle solo per il gusto di andare. Oggi ci servono per trattenere le lacrime. Guidiamo con i navigatori e sbagliamo più di quando non avevamo neanche le cartine.
Abbiamo più paura adesso, seduti sui divani di casa che di quando in autostop attraversavamo tre confini in un giorno.
Che cosa resterà di noi?
Delle nostre risate, delle nostre marinate, delle scritte sui muri, delle impennate, dei nostri baci. Che cosa resterà dei viaggi in treno, delle ore passate in aula all’università, dei giorni in cui credevi di essere arrivato alla fine ed era solo l’inizio di un’altra vita.