sabato 5 luglio 2025

Arrivano le navi da crociera: c’è davvero da essere contenti?



Le sirene suonano, il porto si anima, scendono i passeggeri: la nave da crociera è arrivata. Per qualcuno è motivo di entusiasmo – “più turisti, più soldi, più visibilità” – ma per molti altri, forse non è così.

I crocieristi scendono, guardano l’orologio, camminano veloci. Hanno solo poche ore per “vedere tutto”. Entrano in qualche negozio, si fanno un selfie, forse prendono un gelato. Poi risalgono a bordo.

È il cosiddetto turismo “mordi e fuggi”: rapido, superficiale, spesso inconsapevole.

E quando se ne vanno, cosa resta? Poco. Di certo non un contributo reale all’economia del territorio. La maggior parte delle spese resta dentro la nave: pasti, souvenir, escursioni organizzate da tour operator stranieri. I negozi e le attività locali vedono raramente una vera ricaduta.


Immagina un piccolo centro storico che in poche ore si riempie di migliaia di persone. I residenti fanno fatica a uscire di casa, i mezzi pubblici si intasano, le strade diventano invivibili. Non è una situazione eccezionale: è quello che succede regolarmente nei porti più visitati.

Le infrastrutture locali non sono pensate per reggere un’ondata così massiccia e improvvisa. E tutto questo si ripete ogni volta che arriva una nave.


Le navi da crociera sono delle città galleggianti. E come tutte le città, consumano e inquinano. Solo che lo fanno in mare.

Bruciano carburanti altamente inquinanti, rilasciano sostanze nocive nell’aria e in acqua, e non è raro che si trovino rifiuti sulle spiagge nei giorni successivi all’attracco. Anche se le regole sono più rigide rispetto al passato, i rischi ambientali restano altissimi.


Sono stato a Malta, ho parlato con alcuni operatori de La Valletta e tutti mi hanno confermato questo.


A prima vista, le crociere sembrano portare movimento e lavoro. Ma a lungo andare trasformano l’economia locale. I negozi si adattano al turista frettoloso, cambiano la loro offerta, perdono autenticità.

Le botteghe tradizionali chiudono, sostituite da negozi di souvenir tutti uguali. Le piazze diventano palcoscenici, le strade vetrine.


Il paradosso è questo: i turisti vengono per scoprire l’autenticità di un luogo, ma la loro presenza massiva finisce per cancellarla.


Una città troppo piegata alle esigenze del turismo di massa perde la sua anima. Diventa un luogo finto, pensato per “piacere”, ma non più vissuto davvero. E spesso chi arriva non vede ciò che c’è davvero da scoprire: la storia, la cultura, le persone.


Non si tratta di rifiutare queste forme di turismo. Ma di chiederci che tipo di turismo vogliamo.

Vogliamo visitatori che arrivano, si fermano, ascoltano, parlano con chi vive lì, assaggiano il territorio con rispetto? O preferiamo i numeri alti, le folle, le toccate e fuga?


Forse non è una questione di dire sì o no alle crociere. Ma di iniziare finalmente a fare scelte consapevoli, che mettano al centro le persone, il territorio e il futuro.


Perché un luogo non vale per quanti lo attraversano in un’ora, ma per quante storie può raccontare a chi decide davvero di conoscerlo.

giovedì 12 giugno 2025

Angela


Lo scorso weekend, grazie all’invito (e all’ostinata determinazione) di Angela, che ha celebrato il suo mezzo secolo con grazia e grinta, ho vissuto qualcosa che somigliava più a un ritorno che a un semplice incontro: una rimpatriata con i miei compagni di viaggio del tempo universitario.

Urbino. 1993–1998. Un tempo sospeso tra sogni a buon mercato, caffè con cremini improvvisati e quella fame di mondo che si ha solo quando si ha ancora tutto da perdere.


Non eravamo proprio tutti, ma quasi. Perché si sa, la vita si diverte a diffonderci: figli, città diverse, orari incompatibili. Ma alla fine, anche se non tutti, c’eravamo. E non era poco.


Ci siamo ritrovati in una cascina tra le colline marchigiane, quelle colline che sembrano uscite da un disegno fatto a matita, dove il tempo si stira piano, come un gatto nero al sole. Un posto che ci ha accolti come una vecchia coperta, ancora calda di ricordi.


Abbracci lunghi, risate che scavalcano gli anni, battute che non hanno perso né smalto né complicità. Il tempo, lì dentro, si è accartocciato su se stesso: trent’anni ridotti a un respiro, a uno sguardo, a un “ti ricordi?”.


Certo, qualche ruga in più, qualche ciuffo in meno, qualche acciacco nascosto sotto magliette larghe e sorrisi veri. Ma anche un’intensità nuova negli occhi, una tenerezza che a vent’anni non potevamo nemmeno immaginare.


Eravamo diversi, lo siamo ancora. Ma oggi quelle differenze ci fanno sorridere. Perché abbiamo capito — forse proprio ora — che è nella diversità che si crea il legame più forte. Come le tessere di un mosaico: ognuna unica, ma tutte insieme a comporre qualcosa che, a distanza di anni, continua ad avere un senso.


Tra un bicchiere di Ruchè, un tocco di formaggio e mille frammenti di memoria, il tempo è volato via. Come succede nei sogni belli, quelli che ti svegli e dici “era solo un sogno”, ma in realtà era molto di più.


Non so se ci sarà un’altra occasione. Ma so con certezza che questa ce la siamo portati a casa intera, senza lasciare neanche una briciola.


A Paola, Ema, Domenico e Marcella, Marco e Simona, Vincenzo, Valerio e Carla — e naturalmente ad Angela, senza la quale tutto questo non sarebbe accaduto — va il mio grazie più profondo.


Vi auguro giorni pieni. Di stupore e leggerezza. Di quel tipo di felicità che non ha bisogno di urlare per farsi sentire.


E se la vita vorrà, fra trent’anni o magari anche prima, che ci si ritrovi ancora… sarà un dono da scartare piano. In un’altra cascina, in un’altra parte d’Italia, o magari solo in un sogno comune. Ma insieme.


Perché le cose che contano davvero si contano sulle dita: una mattina che profuma di caffè, le persone che ami accanto, un corpo che ti porta dove vuoi, il coraggio di restare gentili.


Tutto il resto — l’età, le cicatrici, le cadute, i giudizi — è solo rumore di fondo.


Occhio, compagni!

Non è un epilogo, è un nuovo capitolo.

E c’è ancora tanto da scrivere,

tanta vita da brindare,

e almeno un altro ballo da fare sotto le stelle.

domenica 18 maggio 2025

I giacimenti d’oro in Sicilia

Basta andare.

Lasciarsi andare.

Lasciarsi guidare.


Non serve altro. Nel navigatore, solo un punto d’arrivo qualunque, con un paio di accortezze preziose: no autostrade, no strade trafficate. Basta questo per iniziare a viaggiare davvero, per mettere la testa fuori dal guscio del conosciuto e ritrovarsi altrove, anche semplicemente dentro sé stessi.


Siamo in Sicilia, dove l’oro non luccica in superficie ma dorme, quieto, nell’entroterra. Non oro da estrarre, ma da scoprire. È l’oro che si manifesta in un raggio di sole che incendia i Calanchi, nella polvere che si alza dietro una curva solitaria, nel vento che ti accarezza mentre attraversi strade dimenticate. L’oro, qui, ha il sapore della verità.


Si parte per il cuore dell’isola, verso quella terra aspra che ricorda il deserto. I Calanchi: fratture di luce e creta, colline brulle color miele e terra bruciata, dove anche il silenzio ha un suono. Lì, nel nulla apparente, s’incontrano anche cartelli con scritto: “Adotta un ulivo”.

E tu ci pensi. Forse vuol dire scegliere un albero e prendersene cura. Portargli acqua quando puoi. Come si fa con chi non può muoversi, ma ha sete di vita. Forse è questo l’amore più puro: esserci.


Poi, come in un sogno, appare Centuripe. Dall’alto sembra un gigante disteso tra le colline. Una figura mitica, pietrificata dal tempo. Ti fermi un po' prima, sali sulla panchina gigante. Ti senti piccolo, bambino. Ma anche un po’ più grande. Perché da lassù vedi tutto. E tutto sembra nuovo.


Questa è un’altra Sicilia.

Non quella delle cartoline o dei cliché.

È la Sicilia dei silenzi, dei respiri larghi, delle domande che restano sospese nell’aria come polline.


Nel lago di Pozzillo, la quiete è una sinfonia. Una musica composta da mani invisibili, che sa quando far entrare il vento, far tacere il canto degli uccelli, far muovere una pecora tra gli alberi. I cani conoscono la strada meglio di noi. Si muovono sicuri verso il tramonto, come se sapessero che la giornata ha già detto tutto.


E tu ti chiedi: la casa dov’è?

È forse qui, in questo tempo lento?

In questo paesaggio che non chiede, ma offre?

In questo viaggio che ha solo bisogno di attenzione e di occhi aperti?


La casa è dove ti senti vero. Dove non devi dire niente per essere compreso.

È in quella piega del paesaggio che somiglia a una carezza.

Nel primo sorso d’acqua dopo chilometri di sete.

È nel braccio alzato di chi incroci in moto per un attimo e sembra conoscerti da sempre.

È in una strada che non avevi pianificato, ma che ti porta esattamente dove dovevi andare.


La casa sei tu, quando smetti di cercare e cominci ad ascoltare.


E in Sicilia, si ascolta bene.

Perché qui l’oro non si cerca: si riconosce.

E quando lo trovi, sai che non te ne andrai più davvero.


Il lago di Pozzillo sembra come un diamante incastonato al centro di una corona d’oro che cinge il capo della Trinacria. Una regina silenziosa, fiera, che si lascia scoprire solo da chi sa guardare con occhi nuovi.


Qui, tra le pieghe della sua corona, i giacimenti d’oro non sono soltanto zolle e colline: sono visioni.

Oniriche, sospese, impossibili da spiegare.

Non sembra più Sicilia, e forse non sembra neanche una terra.

È un altrove, un confine sottile tra sogno e polvere.


Il vento accarezza il futuro raccolto che ondeggia come un mare.

Sono pennelli sottili, in fila, che dipingono il cielo.

Lo tingono d’oro e d’azzurro.

È un’opera viva, che muta a ogni curva.


Percorrere il perimetro della corona è come dimenticare il tempo.

I minuti si sciolgono tra le mani, le ore si dilatano come l’orizzonte.

E allora andare non è più solo un verbo.

È una forma di respiro, uno stato della mente, una preghiera in movimento.


Tu e la moto diventate una sola creatura.

Simbiosi perfetta tra volontà e istinto.

Non stai più guidando.

Stai volando.


Questa è la Sicilia che non si legge sulle guide. È quella che si sente addosso come il sole di metà maggio,

quella che non si lascia conquistare, ma si concede, a volte, per qualche attimo eterno.


A Peppe, Gianni e Andrea, compagni del mio primo viaggio in moto. Compagni di curve, di risate, di silenzi pieni.

Compagni di asfalto, di chilometri masticati insieme e di panorami che restano impressi non solo negli occhi, ma nel cuore.


In ogni sosta, una battuta, una birra da condividere, una storia da raccontare. Senza di loro, questo viaggio non avrebbe avuto lo stesso sapore.


Siamo partiti senza pretese e abbiamo trovato l’oro.

Non solo nei paesaggi, nelle strade, nelle meraviglie nascoste.


Riflessione finale


Non ci resta che guardare meglio. Scavare sotto la superficie delle cose, oltre la polvere dell’abitudine. Trovare l’oro anche qui, dove sembra non brillare più nulla.

Dove le piazze sono vuote e le saracinesche si abbassano ogni giorno, dove la ruggine prende il posto del rumore e il silenzio è più forte del traffico.


Perché forse la bellezza non è sparita.

Si è solo nascosta.

Come quei giacimenti d’oro nell’entroterra, serve tempo, pazienza, volontà. Serve passare piano, alzare lo sguardo, non accontentarsi della prima impressione.


Forse la vera sfida è questa:

non andarsene per trovare qualcosa di meglio,

ma restare per renderlo migliore.


Riaccendere il fuoco sotto la cenere.

Credere che anche ciò che apparentemente è “frozen” possa tornare a muoversi.

Perché la vita non finisce nei luoghi che sembrano spenti.

Anzi, è proprio lì che può ricominciare.


E allora sì, partiamo ancora.

Ma torniamo anche.

Con occhi nuovi, con il cuore più pieno e con la voglia di cercare l’oro proprio qui, dove siamo nati.

Dove, forse, ci aspetta ancora qualcosa di grande.


Anche se non lo vediamo ancora.

mercoledì 23 aprile 2025

Città barocche, rifiuti in scena: un equilibrio possibile?








Passeggiando tra le vie del centro storico di Scicli, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO e sempre più meta di un turismo colto e consapevole, si è avvolti dalla bellezza barocca dei palazzi, dalle luci dorate della pietra e dalla vivacità dei vicoli. Tuttavia, un elemento ormai diventato parte integrante (e dissonante) del paesaggio urbano rischia di compromettere questa armonia: i mastelli per la raccolta differenziata.

Introdotti con lodevole intento ecologico, i contenitori per i rifiuti rappresentano oggi, in molte strade del centro, un ingombro visivo quotidiano. Disposti ovunque, davanti agli ingressi di abitazioni private, esercizi commerciali e attività turistiche, questi mastelli spesso restano in bella mostra, allineati come sentinelle del disordine. E così, a poco a poco, ci si abitua. Ci si abitua a vederli ovunque. Ci si abitua a non vederli più. Ma l’abitudine, si sa, è sorella della cecità.


Non si tratta di fare polemica né di negare l’importanza della raccolta differenziata, ormai imprescindibile per una città che guarda al futuro. Si tratta piuttosto di interrogarsi su come coniugare decoro urbano e sostenibilità ambientale, specialmente nei contesti di pregio storico e architettonico.

Molte città d’arte in Italia e in Europa hanno affrontato con successo il tema della gestione estetica dei rifiuti nei centri storici. Alcuni esempi virtuosi:

  • Mastelli mimetizzati o integrati in elementi di arredo urbano (cassette in legno, fioriere, nicchie).
  • Spazi comuni condominiali per il conferimento, fuori dalla vista pubblica.
  • Raccolta porta a porta dedicata a orari fissi, evitando l’accumulo prolungato in strada.

Scicli, con la sua sensibilità artistica e culturale, potrebbe farsi promotrice di un progetto pilota che coinvolga cittadini, amministrazione e operatori turistici. Una riflessione condivisa potrebbe portare alla creazione di un regolamento per la gestione estetica dei mastelli, in linea con il decoro urbano e con l’identità della città.


La bellezza è una responsabilità collettiva. Tutelare l’immagine della nostra città non significa opporsi al cambiamento, ma accompagnarlo con intelligenza. Scicli merita una visione che sappia guardare oltre l’abitudine e ripensare anche i piccoli gesti quotidiani, come quello di dove e come posizionare un mastello.


Le foto che accompagnano questo articolo non vogliono essere un atto d’accusa, ma uno specchio. Uno stimolo. Un invito a rivedere ciò che, a forza di vedere ogni giorno, non vediamo più.

lunedì 14 aprile 2025

Un sogno da completare


Eravamo in campagna, su una collina. Intorno a noi solo quiete, natura, e in lontananza il mare che brillava appena, come se stesse ascoltando anche lui. Era da tanto che non ci vedevamo, ma lì, in quel silenzio carico di significato, ci siamo ritrovati. Abbiamo parlato di noi, del tempo passato, delle strade percorse, delle sfide vinte e di quelle ancora da affrontare. Poi la conversazione è cambiata. Abbiamo cominciato a chiederci come fare, davvero, per cambiare lo status quo.


È stato in quel momento che mi hai detto una cosa che mi ha colpito: volevi creare qualcosa di tuo. Lasciare il lavoro da dipendente e metterti in gioco in prima linea. Volevi costruire un’impresa che ti rappresentasse, che fosse la tua voce, la tua visione. E io, senza esitare, ti ho detto che ci sarei stato. Che avrei sostenuto l’inizio, sì, ma anche camminato al tuo fianco, giorno dopo giorno, per far crescere quella realtà insieme.


Non mancava che una cosa: capire in quale ambito avremmo potuto costruire questa impresa.

E proprio mentre stavi per dirmelo, l’alba è arrivata a spezzare il sogno.


È rimasto tutto sospeso, lì, su quella collina che ora è un ricordo.


Ma io ci sono ancora. Che facciamo?


Io sono pronto. E se lo sei anche tu, forse questo sogno possiamo finirlo insieme… a occhi aperti.